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  • nadianunzi

OLTRE IL GIUDIZIO



Sono sempre stata una bambina estroversa, solare, romantica, con addosso i miei adorati vestitini rosa di tulle o organza e le gambette nude. Amavo stare in mezzo alla gente, mi piaceva il contatto fisico, abbracciare ed essere abbracciata. Una “compagnona” potrei definirmi, una bambina che rideva e si faceva voler bene un po’ da tutti.

Da piccola passavo gran parte del mio tempo nell’azienda di famiglia, dove avevo un banco gioco in cui mi divertivo a incollare i sotto tacchi alle scarpe.

Un giorno un cliente che lavorava per mio padre, mi arrivò dietro, si accovacciò per raggiungermi e iniziò a strusciarmisi contro. Provai un grande disagio perché, nonostante non capissi bene le sue intenzioni, sapevo che c’era qualcosa che non andava nei suoi gesti, qualcosa che violava il mio gioco e la mia naturalezza di bambina di otto anni.

Dopo quel primo episodio ne seguirono altri. L’uomo arrivava per una consegna di lavoro e se mi trovava al mio banchetto ed era certo di non essere visto da mio padre, mi raggiungeva e ogni volta mi si piazzava dietro premendo il suo corpo contro il mio.

Rimasi molto provata da quei gesti ambigui e in seguito appena sentivo arrivare il suo furgone mi sbrigavo a tirar via il banchetto oppure correvo a rifugiarmi in casa.

Subii tali molestie per alcuni mesi, senza parlarne mai con nessuno, il senso di colpa si insinuò da subito subdolo e potente dentro di me.


“Sorrido troppo, forse, oppure parlo quando non dovrei” pensavo con la mia mente innocente.

Per fortuna dopo qualche tempo l’uomo smise di collaborare con la ditta di mio padre, seppi in seguito per problemi di alcolismo, e non lo rividi più, se non il giorno del suo funerale. In un certo senso accantonai la cosa e continuai a comportarmi come sempre, fino a quando all’età di dodici anni, un evento simile si ripresentò a me sotto nuove sembianze, stavolta in casa con un parente stretto della mia famiglia.

Ero cresciuta e sapevo che gli abbracci e le carezze che mio zio mi imponeva, parlandomi con voce suadente, erano ancora molestie. Percepivo le sue prese forti, date anche dalla corporatura robusta, come mille mani addosso sul mio corpo magro. Tentavo di divincolarmi quando mi spingeva verso la camera da letto, cercando la mia complicità, ma mi opponevo con cautela temendo le sue reazioni aggressive e sentendomi di nuovo responsabile dell’accaduto.

“Una volta può trattarsi di sfortuna, due proprio no. Sono io a comportarmi male” mi convinsi.

La mia spontaneità, il mio sorriso e le mie gambe nude da ragazzina, attiravano persone pronte ad approfittarsi di me. Ero io il problema.


La ferita si riaprì, stavolta in maniera profonda e pensai che la mia vita non avesse più senso; mi sentivo fragile, esposta, vulnerabile e sporcata per sempre.

Come avrei potuto affrontare tante emozioni da sola?

In quell’attimo di confusione ero sul balcone di casa in lacrime, pronta al peggio, ma un attimo dopo, mentre ero intenta a fissare il vuoto, una nuova voce, più forte si fece spazio in me.

“Io voglio vivere e farlo come sempre, senza nascondermi sotto vestiti che non mi piacciono o una diversa immagine.”

Sentii urlare quella voce dentro di me e la seguii con tanta forza e determinazione.

Ero ancora intimorita dai ragazzi, dagli uomini, ma volevo continuare a essere la me stessa che conoscevo e che amavo.

Ormai adolescente, continuai a indossare abiti svolazzanti, bianchi o rosa, o gonne corte in denim e a essere la ragazzina esuberante che voleva socializzare, mostrarsi ed esprimersi con giocosità. Il mio era anche un modo per essere vista e al contempo sentirmi al sicuro. Con la mia presenza frivola, cercavo aiuto intromettendomi nei gruppi di ragazzine, proteggendo quella parte essenziale di me che mi mostrava viva. Il risultato fu che le coetanee, anziché trovarmi simpatica, mi guardavano con sospetto, percependomi invadente, a volte superficiale. Il senso di inadeguatezza crebbe in me, mi sentivo rifiutata, non accettata e non ne capivo il motivo.


Qualche anno dopo, intenzionata a comprendere il mio disagio, iniziai una formazione di Counseling con la motivazione anche di aiutare mio fratello che viveva un periodo di depressione. In realtà avevo urgenza di aiutare prima di tutto me stessa.

Fu un cammino importante, dal quale ne uscii nuova. Un po’ alla volta, andai, con molta gentilezza, a ritrovare quella bambina orami non più così allegra che si sentiva confusa, ferita e colpevole. La aiutai a comprendere che non aveva fatto nulla di sbagliato, che quegli uomini avevano dei problemi, delle patologie e non stava a lei occuparsene. La invitai ad accettare ciò che era successo, a tirarlo fuori con le parole, con tutti i non detti che le appesantivano l’anima. Fu cosi che la liberai.


Un segreto come il mio porta il peso della vergogna e del giudizio e non permette di essere davvero libere finché non si ha il coraggio di raccontarlo. Narrarsi, senza censure, in un ambiente dove ci si sente protette e accolte, aiuta a ritrovare il proprio centro, la propria luce. Feci questo, un passo dopo l’altro, con l’aiuto di una valida operatrice del centro. Raccontai ciò che avevo sempre taciuto per timore, per vergogna, e iniziai a vedere la mia esperienza da un punto di vista nuovo, a perdonare ciò che non mi perdonavo, sentendomi responsabile. A trasmutare la rabbia che rischiava di distruggere, in un’energia vitale che poteva invece creare meraviglie.

“Non permetterò a ciò che ho subito di togliermi la libertà di mostrarmi.”

Una nuova voce tornò a parlarmi dal profondo della mia essenza, così qualche anno dopo, riuscii a narrarmi pubblicamente come sto facendo anche oggi e a sentirmi più forte, coraggiosa, fiera di me stessa. Ho imparato, inoltre, a mostrarmi in maniera consapevole, non più per il bisogno di essere notata ma per una decisione che nasce dal cuore. Soprattutto senza lasciar intendere a chi si avvicina che può permettersi di mancarmi di rispetto.

Le compagne di classe, che un tempo, spiazzate dalle mie manifestazioni prendevano le distanze da me, sono tornate commosse, dicendomi che erano del tutto ignare del mio stato emotivo di allora. È stato bello ritrovarle e riabbracciarle dopo tanti anni. Sono state la conferma di aver intrapreso la strada più saggia per me. Una strada che non è stata tutta in pianura, o in discesa, ma che mi ha permesso, con i vari ostacoli, di diventare più compassionevole.


Oggi riconosco subito chi vive in chiusura, portandosi dentro un segreto, una paura invalidante e non si fida più del mondo che lo circonda. Riesco inoltre a carpire ciò che più di buono è racchiuso in ognuno e, con la mia autenticità ritrovata, do modo anche a loro di aprirsi con la stessa naturalezza. Quando lo fanno scopro le loro peculiarità e li incoraggio a esprimersi. Questo è il potere della resilienza: fare delle nostre cicatrici dei capolavori da ammirare noi stesse, ma utili anche ad altre persone.

Noi donne siamo preziose, siamo anime che generano vita, dobbiamo ricordarcelo ogni giorno, e avere il coraggio di manifestare il nostro valore andando oltre il nostro vissuto poco piacevole e soprattutto oltre il giudizio, a volte paralizzante, degli altri.

È questo che intendo trasmettere con la mia testimonianza: voglio essere un gancio trainante per tutte quelle persone che, per qualche esperienza, si stanno privando della gioia di essere davvero se stesse.


“Possiamo uscire dall’ombra di ogni esperienza che abbiamo vissuto e riprenderci la nostra autenticità. Ce lo meritiamo.” Questo è il mio inno alla vita per ciascuna di noi.


Storia vera di Monia Rossi raccolta per la rivista Confidenze n°37 agosto 2021

Approfondimenti sulla storia della protagonista all'interno del libro Donne Eccezionali

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