La mia fiducia ritrovata
- nadianunzi
- 7 ore fa
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La musica classica riempiva la stanza e mi avvolgeva con le sue note soavi rallegrandomi il cuore. Mi faceva sentire a casa, essendo cresciuta con quel sottofondo, e al contempo mi rendeva fiera perché ero io stessa in quel momento a suonarla con le mie esili dita di tredicenne.
Mia madre, che amava il pianoforte, aveva accantonato il sogno di suonarlo per risparmiare soldi e dedicarsi alla famiglia, e in seguito aveva offerto a me l’opportunità di prendere lezioni, avendo visto brillare nei miei occhi lo stesso desiderio.
Ero felice che credesse in me e in quei momenti vedere come le mie dita si muovessero abili sui tasti mi sembrava incredibile.
«Ma che fai? Non così, non così, maledizione! Ricomincia!»
Purtroppo qualcuno non sembrava dello stesso parere. Il burbero insegnante di allora non faceva che sgridarmi e tuonare contro di me frasi imperative che dichiaravano la mia incapacità.
«Non sei portata per il piano. Sbagli sempre!» mi urlò un giorno e io gli credetti.
Mi sembrava avere talento ma forse aveva ragione lui. Non ero all’altezza ed ero una che sbagliava sempre. Del resto lo ripeteva in altre occasioni anche mio padre quindi doveva essere vero.
Così, con quelle parole che riecheggiavano in testa, accantonai il mio sogno, proprio come mia madre e anno dopo anno mi dedicai con tutta me stessa allo studio, con l’intento di eccellere.
Non doveva capitare mai più che sbagliassi qualcosa. Questa era la mia promessa.
Mi iscrissi al liceo classico, poi proseguii con l’università specializzandomi in medicina veterinaria, amando molto anche gli animali, e mi laureai con il 110 e lode.
Uscita dalla scuola iniziai a lavorare in un ambulatorio veterinario mettendoci anima e corpo, ascoltando anche le storie delle persone e approfondendo la loro relazione con gli animali.
Era il valore aggiunto che sentivo di portare in quel lavoro e mi si stringeva il cuore ogni volta che vedevo nei loro sguardi la preoccupazione per i loro amati.
Un giorno, mentre aiutavo il direttore sanitario a effettuare un’operazione delicata su un cane, riflettevo proprio sulla sua storia sperando di salvarlo.
«Ma che diamine fai?» mi urlò lui a un certo punto.
Per una distrazione avevo commesso un errore e il medico mi scagliò contro una sacca di fisiologica.
«Sei proprio un’incapace!» aggiunse incenerendomi con lo sguardo.
Sapevo che non vedeva di buon occhio la mia sensibilità perché rallentavo il lavoro parlando con i clienti e forse quella fu la sua occasione per mortificarmi. Ma il tarlo dell’essere sbagliata tornò comunque a risuonare in me. Arresa mi tolsi il camice buttandolo a terra e me ne andai dalla clinica.
Avevo 28 anni, mi ero sposata da poco seguendo l’esempio di mia madre, e iniziai a pensare che quella fosse l’unica strada anche per me: dedicarmi alla famiglia accantonando talenti e ambizioni. Ma non ero felice, il senso di fallimento mi sovrastava e non avevo più nessuno stimolo per andare avanti.
Mi sentivo sola, afflitta e in gabbia. Mia madre abitava distante, mio marito era quasi tutto il giorno fuori per lavoro e l’unica cosa che sembrava ridarmi un po’ di sollievo era la musica classica, che non avevo mai smesso di ascoltare.
Poi un giorno, mentre vagavo con lo sguardo perso, la mia attenzione andò proprio sul pianoforte che avevo portato con me dalla casa di famiglia.
Senza pensare a nulla mi sedetti sullo sgabello e iniziai a riprodurre le musiche di Einaudi che ormai conoscevo a memoria.
Le dita sembravano andare da sole e provai quasi subito un senso di pace e, un giorno alla volta, il mio malessere lasciò il posto a spiragli di luce sempre più grandi che mi proiettarono di nuovo verso la voglia di fare.
Decisi di tornare al lavoro e, visto il mio aspetto aggraziato, mi proposi come hostess o ragazza immagine.
Sembrava funzionare. Il mio umore ben presto migliorò, tornai a sorridere e, vedere che la mia gentilezza metteva di buon umore i lavoratori stressati che avevo intorno, faceva sentire bene anche me.
Loro cercavano un po’ di armonia e io con semplici gesti ero in grado di donarla. In qualcosa ero brava, allora. Mi dicevo.
Proseguii per mesi con quei lavori, divertendomi e lasciandomi alle spalle il periodo buio che avevo attraversato ma non durò molto perché ben presto scoprii di essere incinta e ciò che ne conseguii fu una gravidanza alquanto difficile.
Iniziai subito ad avere forti nausee che mi portarono a rimettere di continuo fino a rovinarmi tutti i denti. E come se non bastasse al quinto mese il medico mi ordinò di restare ferma a letto per la sicurezza del bambino.
Ritrovarmi in quel malessere fisico mi fece ripiombare in un nuovo stato depressivo. Piangevo sempre, mi sentivo impotente e con addosso un’enorme frustrazione.
«E ora che faccio ferma qui tutto il giorno?» mi chiedevo.
C’era poco che potessi fare, in realtà, se non leggere libri, in particolare manuali che spiegavano come prodursi prodotti naturali in casa come saponi, creme, dentifrici. Cercavo qualcosa per migliorare le condizioni dei miei denti e alla fine mi appassionai a quel mondo.
Poi arrivò la nascita del piccolo Nathan e le difficoltà aumentarono perché non ne voleva sapere di dormire.
Ero esausta. Prima la degenza e le mie lacrime poi il pianto disperato di mio figlio.
«Possibile non ci sia un attimo di tregua?» rimuginavo. «Ci sarà pure un modo per avere un po’ di pace!»
E la pace arrivò a me un’ennesima volta attraverso la musica.
Ero in sala d’attesa di un osteopata che faceva dei trattamenti per il bambino e la melodia di un noto pianista mi trasmise lo stesso senso di serenità che avevo provato quando avevo riappoggiato le mani sui tasti.
Acquistai subito un suo CD e una volta a casa lo misi come sottofondo e notai che anche Nathan era più calmo e con quella musica dormiva beato.
Era incredibile.
Il tempo di riprendere le forze e iniziai a preparare i rimedi che avevo letto e studiato sui libri. Nei ritagli di tempo, con la musica classica che ci nutriva, indossavo la fascia porta bebè e sperimentavo.
Fu un momento catartico per me perché nel creare qualcosa con le mie mani mi resi conto delle mie risorse e ritrovai fiducia. Non ero poi così sbagliata e incapace come avevo sempre creduto.
Due anni dopo, con una nuova percezione di me stessa creai dei corsi di autoproduzione che si rivelano un successo e insieme alla mia autostima che si rinforzava sempre più vidi rinascere tante altre donne.
Dedicandosi alla produzione di questi prodotti naturali, le donne tornavano a credere in sé stesse e anch’io insieme a loro. È così che ho ritrovato la mia strada, quella che era già tracciata sin dall’infanzia ma che per paura del fallimento e del giudizio non avevo avuto il coraggio di seguire.
Da quella fiducia ritrovata, quasi mossa da un istinto primordiale, decisi di prendere lezioni di arpa e nel giro di pochi mesi iniziai a esibirmi in pubblico intonando canti che donavano benessere.
E più la musica mi accompagnava, più vedevo gli sguardi delle persone intorno a me rasserenarsi, più mi sentivo a casa. Non c’era più nessun timore del giudizio perché non suonavo per eseguire brani tecnicamente perfetti ma per condividere armonia e bellezza.
E tutt’ora è così: il focus non è più su di me ma sugli altri, che mentre mi ascoltano in realtà ascoltano sé stessi e ritrovano benessere.
Questo è ciò che dà un senso a ciò che faccio: vedere ogni volta la
luce nei loro occhi. La stessa luce che ho rivisto anche in mia madre, dopo anni di sacrifici, quando finalmente si è ridata spazio nella sua vita e, ispirata dal mio coraggio, ha ripreso in mano la sua passione e ha cominciato come me a suonare.
Storia vera di Melissa Buccella, raccolta per la rivista Confidenze N*50










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