Non ci speravo più
- nadianunzi
- 9 ore fa
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Sono sempre stata una brava bambina, ubbidiente e pronta ad aiutare mia mamma nelle piccole faccende domestiche. E crescendo più la osservavo più si consolidava in me quell’unico modello da seguire di donna lavoratrice, moglie e madre, senza tenere in considerazione nessuna alternativa.
Così, insieme al matrimonio ho messo in conto di avere presto dei figli e dopo circa due anni io e mio marito Samuele abbiamo deciso di provarci. Anche lui era entusiasta all’idea di dare alla luce una nuova vita che rappresentasse il grande amore che nutrivamo l’uno per l’altra.
«Sono certa che sarai un ottimo padre, sei fatto per essere padre» gli dissi una sera, mentre ne parlavamo. Lo immaginavo già con in braccio quella creatura minuta a darle la guida che l’avrebbe accompagnata nel mondo, insieme a infinite attenzioni, con la gentilezza che lo caratterizzava.
«Anche tu sarai un’ottima madre» mi rispose ed eravamo così uniti e felici di intraprendere quella nuova avventura che non ci sfiorava minimamente l’idea che la vita avesse altri piani per noi. In particolare non sfiorava me.
Quando, un mese dopo l’altro, iniziai a fare i conti con la gravidanza che non arrivava qualcosa si incrinò nel mio animo e la sicurezza che credevo di possedere si trasformò subito in inadeguatezza.
«Samu, dici che ho qualcosa che non va?» chiesi appunto a mio marito dopo essere usciti da un’ennesima visita medica di controllo.
Le analisi non evidenziavano nulla di anomalo, eppure di fatto non rimanevo incinta.
«Ma no, cosa vai a pensare? Non hai nulla di sbagliato, vedrai che presto nostro figlio, o nostra figlia, arriverà. È solo un anno che abbiamo iniziato a provarci. Ci attendono ancora tante altre notti di amore» mi rassicurò lui.
Ma sì. Aveva ragione. E poi forse dipendeva dall’endometriosi. I medici mi avevano detto che era uno dei motivi frequenti dell’infertilità e operandomi avrei risolto e anche i figli poi sarebbero arrivati con facilità.
La speranza tornò in me e continuai a immaginarmi in quella nuova realtà dove non eravamo più solo una coppia ma una vera famiglia, come quella in cui ero cresciuta io.
Ci dedicammo a nuove premure quotidiane e, proprio come aveva sostenuto Samuele, a tante altre notti di amore. E ogni mese attendevo quel ritardo mestruale che avrebbe confermato la realizzazione del mio desiderio. Eppure non accadeva. Il mio ciclo era puntuale come non mai, così come lo era la voce che mi diceva di essere sbagliata.

Mi sentivo tradita dal mio corpo e anche in colpa, per quel figlio che non solo non riuscivo ad avere, ma che non potevo dare nemmeno a mio marito.
Meritavo di essere madre come le altre donne che vedevo al parco con i passeggini e i sorrisi appagati. Trovavo ingiusto non poter essere come loro e il senso di inferiorità e incompletezza si faceva sentire sempre di più.
Sì, perché di fatto non mi sentivo completa senza un figlio. Era come se mi mancasse un pezzo. E riuscire ad averne era diventato il mio unico pensiero.
Non mi importava dei sacrifici che avrei dovuto fare per provarci, né della stanchezza delle lunghe giornate di lavoro in azienda che caratterizzavano la mia quotidianità. Non volevo lasciare nulla di intentato. Inoltre ero stanca di sentirmi chiedere: «Voi non è ora che fate un figlio?» da coppie che non ipotizzavano nemmeno ciò che stavamo attraversando.
Mi sentivo sempre più sconfortata, in parte sola e anche in colpa per quella gioia che non riuscivo a provare per le gravidanze così naturali delle mie amiche. Mostravo loro dei sorrisi di circostanza ma dentro mi sentivo morire.
Così una sera dissi a mio marito: «Voglio provare con la procreazione assistita».
Avevo già fatto la laparoscopia per l’endometriosi, ma nulla era cambiato.
Non restava che questa opzione e forse stavolta ce l’avrei fatta.
«Se è quello che vuoi, va bene, proviamo» mi rispose abbracciandomi,
«ma non voglio più sentirti dire che se non va ci lasciamo, ok? Per me sei importante tu, con o senza figli».
Ero arrivata a chiedergli anche questo, di separarci, non potendogli dare ciò che anche lui desiderava. Ma la forza dell’amore era emersa di nuovo tanto forte da tenerci insieme. Così intrapresi questa nuova via, fatta di viaggi a Roma, momenti di intimità tutti per noi, tanto dolore e nuove sfide.
Mi dispiaceva bombardarmi di ormoni e mi vergognavo anche un po’ di dover ricorrere alla Fivet perché era un’ennesima conferma del mio fallimento. Mi sentivo come una donna non del tutto funzionante, con un corpo che non voleva saperne di procreare. Inoltre avevo paura delle conseguenze, ma il desiderio della gravidanza era più intenso e mi trainava con una forza quasi sovrannaturale.
Una volta a casa proseguii con le punture in pancia ma niente, nemmeno questa strada sembrava portare i suoi frutti. E dopo il secondo tentativo e le parole dispiaciute di Samuele, alla fine decisi di fermarmi.
«Io non ce la faccio più a vederti così. Sono ormai tanti anni che ci proviamo. Basta. Accogliamo ciò che viene senza pensarci più. Possiamo essere felici anche in due».
Avevo pianto tante lacrime, sottoposto corpo e mente a un carico enorme di stress. Samuele aveva ragione. Era giunto il momento di fermarsi.
Rivolsi una preghiera silenziosa all’Universo che conosceva ormai più che bene il mio intento e smisi di forzare le cose. In fondo chi ero io per sapere che cosa fosse davvero il mio meglio?
Mi ero accanita con tutta me stessa a voler controllare qualcosa di infinitamente misterioso. Se un figlio non arrivava dovevo accettarlo, soprattutto dopo che erano passati ben dieci anni, avevo tentato davvero in ogni modo e nel frattempo mi ero dimenticata di me stessa.
Mollai la presa. Mi presi del tempo per ascoltarmi come non avevo ancora fatto per davvero, talmente assorbita da quel pensiero diventato ossessivo.
«Cosa avevo voglia di fare per me? Solo per me» mi domandai.
Volevo tornare a studiare e dedicarmi a un lavoro nuovo che mi appassionasse. Lasciai il posto fisso e mi iscrissi a una scuola di naturopatia. E allo stesso tempo iniziai a praticare la meditazione.
Stare nel mio silenzio, ascoltando semplicemente il mio respiro mi fece comprendere quanto fosse affollata la mia mente e ancor più quanto fossi distante dal mio cuore, dal mio amore per me.
Praticando, dopo alcuni mesi mi sono ritrovata più calma e a un certo punto anche il desiderio di maternità ha cambiato forma. Non mi sentivo più incompleta come donna. Perché in realtà l’incompiutezza era interiore e riguardava qualcosa di più profondo: la mia realizzazione personale.
Finalmente ero pronta a capirlo, a fare tesoro di tutti gli insegnamenti che il viaggio nella sofferenza mi aveva donato.
Oggi so che una donna è unica e completa anche senza figli. E la serenità va cercata dentro di sé, dove risiedono i veri desideri dell’anima.
È lì che ho ritrovato i miei, ben nascosti sotto strati di convinzioni e retaggi culturali. Così, andando oltre le raccomandazioni di persone care, ho aperto una mia attività e ho iniziato a insegnare ciò che mi aveva così tanto aiutata: la meditazione.
Mia figlia Zoe è arrivata proprio in quel periodo, a pochi mesi dall’apertura del mio studio di naturopatia, e lo ammetto ci ho messo un po’ a elaborare la sorpresa inaspettata. Perché è arrivata proprio quando non ci pensavo più e avevo raggiunto un mio equilibrio, rimettendo di nuovo tutto in discussione e stravolgendo i miei piani. Ma oggi le sono più che grata perché, oltre a essere un dono e un miracolo, è ogni giorno la mia più grande maestra di Vita.
Storia vera di Sara Camilletti, uscita in edicola sul Numero 26 della rivista Confidenze
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