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  • nadianunzi

El Camino



Era da un po’ di tempo che desideravo fare un percorso in solitaria.

Volevo sperimentare, mettermi alla prova e scoprire cosa il viaggio mi avrebbe donato e fatto conoscere di me stessa.

Iniziai a prendere informazioni online e a chiedere a persone che avevano giù intrapreso dei lunghi cammini, per valutare quale fosse più adatto a me.

Dopo varie ricerche e aver letto molte storie, scelsi il Cammino di Santiago di Compostela, a mio avviso, il più organizzato, con ottima segnaletica e sicuro anche per chi, come me, era alla prima esperienza.

Una volta deciso il cammino, iniziai ad allenarmi per tonificare le gambe e predispormi al viaggio, così feci dodici chilometri al giorno, ovvero la metà di ciò che era previsto per il cammino, per circa due mesi, fino alla partenza a inizio luglio.


Nel frattempo mi venne in mente di coinvolgere anche mia figlia Nausica, allora quattordicenne. Eravamo state ferme in casa un bel po’, causa lockdown, la vedevo giù di tono, demotivata e affaticata dalle numerose lezioni di didattica a distanza. Muoversi con una sana attività fisica all’aria aperta mi sembrava l’ideale per darle modo di rigenerarsi.

«Mamma, io non cammino!» mi rispose subito distogliendo l’attenzione dallo schermo del computer, ma i suoi sguardi dicevano altro. La conosco bene, una scintilla di entusiasmo si era manifestata subito dopo aver ascoltato la mia proposta.


«Vengo solo se alla fine facciamo anche una tappa in Portogallo» aggiunse infatti a distanza di pochi giorni. È una ragazza curiosa, molto interessata alle culture dei vari popoli e aveva letto che Lisbona, al capitale, è considerata la San Francisco d’Europa per una serie di somiglianze tra le spiagge, ponti sospesi, tram e voleva verificarlo di persona.

Accolsi la sua condizione con entusiasmo, stava studiando la lingua spagnola e poteva essere una buona occasione anche per approfondirne la conoscenza, così preparammo insieme gli zaini con lo stretto necessario e le scarpe da trekking.


A seguire mi misi alla ricerca dei voli disponibili, dopo le chiusure eravamo ancora in pochi a muoverci e non sapevamo bene quali difficoltà avremmo potuto incontrare, ma ci sentivamo sicure, senza timori particolari. Appena trovato il volo, ci dirigemmo in Francia.

Il nostro viaggio a piedi iniziò da lì, esattamente da Saint-Jean Pied de Port, il versante francese dei Pirenei.


Ogni mattina, al risveglio, Nausica mi ripeteva il suo mantra «mamma, io non ho voglia di camminare» poi muoveva il primo passo e partiva, ritrovandosi a fine giornata soddisfatta di sé e di ciò che aveva vissuto.

Sapevo bene che aveva tutte le capacità per farcela, è molto determinata, aveva solo bisogno di avere fiducia in sé stessa.

La prima settimana comunque fu la più difficile perché c’era da capire le potenzialità del corpo, inoltre la nostra prima tappa, alle pendici dei Pirenei, da inesperte era fisicamente la più impegnativa.

All’inizio appena percorsi i venticinque chilometri giornalieri eravamo talmente stanche che, appena arrivate negli alloggi, quasi ci dimenticavamo di mangiare o meglio per evitare di uscire ci arrangiavamo con le nostre provviste. Poi, giorno dopo giorno, trovammo un equilibrio, iniziammo a organizzarci meglio, consumavamo un buon pasto prima di rifugiarci in stanza e crollare sul letto.


Già dalla seconda settimana, dopo esserci riposate nell’albergue di Pamplona, ci sentivamo ottimiste e più forti, la percezione del corpo era cambiata, avevamo superato delle sfide, come quella di camminare sotto la pioggia sui sentieri rocciosi. Stavamo prendendo coscienza delle nostre capacità e di aver superato delle barriere importanti. Da lì iniziammo a spostare l’attenzione dal corpo all’esterno di noi stesse, a guardarci intorno, ad assaporare la bellezza che ci veniva offerta dalla natura in ogni attimo e a condividere il cammino con gli altri.

In quel periodo c’erano pochi pellegrini in viaggio ma ciascuno di loro aveva un pezzetto della sua storia da narrare. Si camminava emanando un’energia affine, che andava al di là della posizione sociale o del lavoro, eravamo uniti da uno stesso filo anche se per ciascuno la spinta iniziale poteva essere diversa.

José, per esempio, un bizzarro 75enne con cui esplorammo un tratto, era la quinta volta che percorreva le stesse strade eppure ne parlava come se fosse la sua prima esperienza, avendo colto nuove sfumature.

Più vedevo mia figlia interessata ad ascoltarlo, in totale apertura, più avevo conferma di aver preso la decisione giusta nel coinvolgerla.


Ho ancora in mente un’immagine molto bella di lei seduta nel giardino dell’albergue a O Cebreiro in Galizia mentre è intenta ad ammirare la montagna, assaporando una mela, immersa nel silenzio. Era estasiata dal paesaggio e in quel momento non aveva bisogno di altro, nemmeno della mia presenza. Stava dialogando con la natura e imparando ad ascoltare sé stessa come non aveva fatto prima ed ero fiera di lei mentre a distanza mi riparavo dal vento freddo.

«Non volevo perdermi l’emozione che mi trasmetteva la vista mozzafiato del tramonto» mi disse quando rientrò nell’alloggio e non aggiunse altro, perché in certe circostanze le parole si fanno da parte e lasciano spazio al linguaggio del sentire.



Erano ormai venti giorni che camminavamo e la percezione dello spazio e del tempo aveva assunto un nuovo valore. Tutto si era ridimensionato, anche il nostro sguardo, che si era spostato dentro, nel profondo, e aveva molto da mostrarci di noi stesse.


Arrivata a quel punto, Nausica aveva già fatto sue alcune verità, per esempio che non contava più la destinazione, che comunque era certa di raggiungere, ma il viaggio. Che il vero senso del cammino è il cammino stesso. Aveva compreso il valore dell’esperienza, che le cose più belle hanno un loro prezzo, fatto di sacrifici, volontà e determinazione. E che solo grazie alle sue forze, compiendo un passo alla volta, nella vita avrebbe raggiunto i suoi obiettivi.


Dopo Santiago fu lei a chiedermi di proseguire verso l’Oceano, stava facendo tesoro dell’esperienza e dietro ogni fatica scorgeva subito il dono.

Come da promessa, concludemmo il viaggio in Portogallo dove ci spostammo con i mezzi, riempiendoci gli occhi con altri colori, altre vie, altre persone.


«Insieme ce la facciamo» era stato il nostro motto ogni mattina e insieme eravamo arrivate anche oltre il cammino previsto, il nostro legame si era rafforzato e lei era diventata più consapevole.

Ho ripetuto il viaggio anche con l’altro mio figlio tredicenne, ed è stata un’esperienza differente, più avventurosa e giocosa, dove la bambina ero io e lui l’uomo che voleva proteggermi. È stato diverso ma altrettanto arricchente e al ritorno ho visto cambiato anche lui, meno bambino e innamorato della vita.


Viaggiare con i propri figli è prezioso, soprattutto quando sono ancora adolescenti e possono sentirsi disorientati. Ritengo che sia un buon modo per accompagnarli verso la maturità e l’autonomia mostrando loro nel concreto le varie sfaccettature della vita, che comprendono anche eventi spiacevoli e persone dalle quali è fondamentale imparare a distaccarsi. Questo può aiutarli a crescere con basi solide, ben ancorati nella realtà, presenti a sé stessi e a ciò che li circonda.

Con questa esperienza condivisa ho ricevuto più di quanto mi aspettassi, qualche tempo dopo El Camino, mia figlia mi scrisse:

«Cara mamma, grazie per il bellissimo viaggio fatto insieme. Adesso capisco quanto importante e pieno di emozioni sia stato… quanti attimi preziosi e semplici, ricchi di umanità. La fatica l’abbiamo sentita per un mese ma la soddisfazione e l’orgoglio li sentiremo per tutta la vita»

e mi resi subito conto di quanto fosse maturata.


Storia Vera di Assunta Amici con sua figlia Nausica, per la rivista Confidenze n*47, novembre '21




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