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  • Nadia Nunzi

L'unico modo di amare che conosco


Tutta la vita ho vissuto sapendo di essere una dipendente affettiva. Disturbo, fino a poco tempo fa, quasi sconosciuto. Molto discusso, invece, nella realtà odierna e nella letteratura. Forse solo chi la vive, o l’ha vissuta, può comprendere appieno il senso di questa dipendenza.

Personalmente non ho mai conosciuto nessuno che fosse simile a me in questo ambito affettivo/amoroso. Questo forse non ha reso possibile la condivisione di un “modo di amare” così totalizzante a paralizzante.

È l’unico modo che conosco. Non ho mai sperimentato la serenità e la gioia che un amore può dare, ma sempre e solo una paura di perdere, un bisogno costante che paragona l’amore a una droga, al bisogno di quelle briciole che sono la “dose”, che permette di nutrire un bisogno incessante di rassicurazioni, vicinanza, conferme.

La paura di perdere domina incontrastata, la paura che “l’oggetto di amore” si allontani, si dimentichi di te, non ti nutra con la sua presenza o con la telefonata o il messaggio. Telefonata o messaggio che in questa epoca tecnologica hanno assunto un ruolo fondamentale nei rapporti.

Perché non visualizza? Perché non risponde?

Ogni ritardo è fonte di ansia e preoccupazione.

Forse non mi vuole più? O non può scrivere?

Domande che chi è dipendente all’interno di un rapporto si fa continuamente nell’attesa vana di un riscontro.

Troppe volte ho vissuto questo circolo vizioso, rincorso chi fuggiva, chiesto scusa quando non era necessario, accettato l’inaccettabile per compiacere, per essere brava.

Se mi mostro brava forse anche lui mi amerà, mi dicevo.

Dover dimostrare sempre qualcosa per essere vista, per sentirmi importante per lui.

Esisto se sono nella mente dell’altro e se mi struggo per l’altro.

Non conosco altro modo di amare.

Quando la relazione non è paritaria, la persona che avverte di non ricevere abbastanza, di non essere capita nei propri bisogni, finisce per accontentarsi e, anche se a fatica, si fa bastare le briciole pur di essere accettata.

In quel momento bisognerebbe porsi delle domande, chiedersi se è davvero quel tipo di rapporto ciò che vogliamo o meritiamo.

A queste domande spesso non ho concesso di affiorare alla coscienza. Assorbita dal desiderio di compiacere non ho dato ascolto ai miei bisogni. A quella vocina che mi diceva: ma è davvero questo che voglio? È questo che merito? O che penso di meritare?

Nell’altro si apprezzano le nostre parti mancanti.

Cosa ho visto negli uomini con i quali ho cercato inconsciamente di completarmi?

Fascino, autonomia, bellezza, intelligenza…

Qualunque fosse la qualità che compensava la mia parte mancante, nel momento della rottura (inevitabile) ho dovuto fare i conti con ciò che perdevo di me perdendo l’altro. Preferivo non separarmi per non smarrire pezzi di me.

Ripartire ogni volta da stesse non è facile e nemmeno veloce. Il percorso di guarigione e di ricostruzione è lungo, irto di difficoltà e di ricadute, ma solo noi stesse possiamo essere artefici del nostro benessere. Ascoltandoci, prendendo atto dei nostri bisogni e di ciò che ci fa stare bene. Senza perdere mai di vista, seppur con le nostre paura e le nostre fragilità, il nostro valore.

Riconoscendo di essere importanti e prioritarie agli altri.

Raggiungere questa consapevolezza è il primo passo verso la libertà. Carmen

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