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ORA SO CHI SONO

nadianunzi

«Mangia meno pane che sennò diventi una botte».


Questa era la frase di rito che mi accompagnava da piccola, quando avevo circa 12 anni. A volte era mia nonna a pronunciarla, una donna alta e snella e molto fiera di sé. Altre volte usciva dalla bocca di una delle mie sorelle che appariva ai miei occhi molto più magra e molto più fortunata potendosi permettere di mangiare qualsiasi cosa senza ingrassare di un grammo.


Non che fossi in sovrappeso, sia chiaro, ma avevo il viso abbastanza paffuto e contornato da un caschetto da farmi sembrare rotonda e comunque ero sempre più in carne rispetto a mia sorella o alle mie compagne di classe. 


A diciotto anni, come se non bastasse, ci si mise pure il seno prorompente a esplodere sul mio corpo da ragazzina insicura e il senso di ingiustizia crebbe a dismisura portandomi a divorare altri pezzi di pane.

 

Ogni volta che mi ritrovavo a camminare per strada ecco che mi arrivavano addosso gli sguardi ambigui dei ragazzi o degli uomini che incrociavo e mi sentivo costantemente derisa.


«Che hai da guardare?» avrei voluto urlare a ognuno di loro, invece mi limitavo a camminare a testa bassa, china su me stessa, incurvando le spalle o incrociando le braccia.


Le giacche nere che indossavo non si chiudevano sul petto e nel tentativo di cercare abiti che si adattassero alle mie forme mi imbattevo in commesse che mi trattavano come la protagonista del film Pretty Woman.

«Non abbiamo nulla per lei nel nostro negozio» mi disse appunto un giorno una di loro dopo aver chiesto di provare un costoso capo di lingerie.

Uscii dal negozio trattenendo le lacrime con impresso dentro di me lo sguardo sprezzante dell’acida signora che non aveva voluto servirmi.


Sono cresciuta con questo senso di disagio addosso che mi ha portata a credere di essere sbagliata, imperfetta e soprattutto da coprire.


Mi vestivo sempre con abiti scuri, formali e sufficientemente larghi da occultare, oltre al seno, anche la mia pancia che crescendo si era fatta più morbida.


Da lì a poco instaurai la prima relazione disfunzionale con un partner abusante che non faceva altro che ricordarmi la pessima donna che ero con frasi svalutanti alternate al desiderio di possedermi.


Del resto cos’altro potevo aspettarmi con quel corpo?

Credevo di non poter meritare altro e iniziai ad accontentarmi.

In fondo era già un miracolo che avessi una relazione, pensavo.

 

A diciannove anni iniziai a lavorare come infermiera portando avanti i sogni non realizzati di mia madre e, accanto al desiderio di aiutare gli altri a stare meglio, camminava costante quello di essere apprezzata, riconosciuta per la donna che ero e lo facevo anche attraverso il mio altruismo, così i pazienti mi volevano bene e questo in parte risanava le mie ferite.

Nonostante ciò quando c’era un problema, indipendentemente dalla mia responsabilità, ero sempre pronta a giustificarmi.

«Scusi, mi spiace, avrò sbagliato io» erano le mie parole ricorrenti verso i superiori.

Il senso di sfiducia si era radicato in me così profondamente che le giustificazioni partivano in automatico.

 

Poi in una serata qualunque dei miei 45 anni, tra una fetta di dolce e un caffè, mentre scorrevo rapida i vari post su Instagram, la mia attenzione venne catturata da una consulente di immagine che spiegava come indossare una canottiera in base alla dimensione del seno e in me si accese una scintilla di speranza.

 

«Quindi anche se non vado ore in palestra, non mi metto a dieta stretta e non ricorro alla chirurgia estetica posso migliorare la mia immagine e sentirmi bene?» pensai con una prima nota di entusiasmo.

 

Non avevo mai tenuto presente questa possibilità e mai sentito nulla del genere prima. Iniziai a seguire i suggerimenti di quella professionista e qualche giorno dopo prenotai una consulenza individuale, piena di vergogna nell’inviare le mie foto insieme alle misure del mio seno e del girovita.

Ero abituata a guardarmi allo specchio, seppur quello che vedevo non mi piacesse, ma rivedermi in quegli scatti personali era ben altra cosa.

Il fermo immagine mi costringeva a guardare quelli che reputavo difetti senza alcuna via di scampo.

Superato questo impatto acquistai i miei primi jeans e li abbinai con una camicia che avevo nell’armadio e finalmente mi vidi diversa.

Ero bella vestita così! E soprattutto mi sentivo bene.

Mi sembra incredibile.


Continuai a interessarmi sempre più a quel mondo dove tutto era incentrato sul valorizzare la propria immagine e, proseguendo con le consulenze individuali e il percorso di formazione, la relazione con me stessa diventava sempre più amorevole.

Mi specchiavo e mi piacevo vestiva diversamente, avevo un’aria più fresca, più sbarazzina e mi ritrovavo a sorridermi come non facevo ormai da troppo tempo.

Poi però arrivarono i primi complimenti esterni e, anziché sentirmi felice, l’insicurezza tornò a bussare alla mia porta.

«Lo dirà per gentilezza» mi ripetevo quando era una donna a definirmi bella o raggiante.

«Avrà un secondo fine» lo riservavo invece a tutto il genere maschile.


Ci sono voluti diversi anni prima di riuscire a fidarmi degli altri e a credere che le loro parole sul mio aspetto esteriore fossero sincere e un bel lavoro su me stessa, ma ce l’ho fatta.


Ora non mi tocca se qualcuno mi dice di mangiare meno pane, la prendo a ridere e continuo a volermi bene per quella che sono, curando l’alimentazione, certo, ma senza precludermi il piacere del buon cibo.


Inoltre non mi serve più l’approvazione esterna per amarmi e nemmeno per scegliere cosa indossare.

Ricordo senza più astio quando, anni fa, chiedevo a mia sorella di accompagnarmi a fare shopping e puntualmente mi invitava a prendere vestiti di qualche taglia in meno. «Per quando ti metterai a dieta» era il suo incentivo. 


Allora la cosa mi feriva, oggi invece non le do importanza e provo tenerezza per la donna insicura e timida che sono stata, che arrossiva per un nonnulla e che faceva fatica a parlare in pubblico.

Valorizzare la mia immagine ha innalzato la mia autostima e mi ha permesso di riscoprire chi sono davvero sotto qualsiasi strato e di esprimere me stessa a colpi di colore e autoironia. E non a caso sono diventata anch’io una consulente d’immagine, anzi una Style Therapist, come mi piace definirmi unendo la dedizione per il benessere altrui allo stile.

Claudia Vizzardi, Style Therapist
Claudia Vizzardi, Style Therapist

Sono fiera della donna che sono diventata e ora mi piaccio, non solo quando mi guardo allo specchio, anche nelle foto. E proprio nel bel mezzo del mio lavoro come consulente, che ancora affianca quello da infermiera, mi sono regalata anche un servizio fotografico personale che mi ritrae con quel completo intimo elegante e lussuoso che a diciotto anni la commessa mi ha negato.


Quando cammino per strada con i miei tacchi rossi fiammanti o con un tailleur giallo, il mio passo è sicuro, le spalle sono aperte e mi sento solare, viva e soprattutto libera di essere me stessa.

Per anni ho dato attenzione a quelle parti che non mi piacevano quando invece il segreto era portare attenzione ai miei punti di forza come per esempio le gambe, lo sguardo, il sorriso e valorizzarli per poi amarmi nella mia totalità.


Ed è ciò che trasmetto alle donne che si rivolgono a me per ritrovare fiducia. Le accompagno a riscoprire la loro essenza, quella che anni di condizionamenti e critiche hanno offuscato, così che possano tornare a esprimersi in maniera autentica. Sentendosi bene con i colori che sono loro a scegliere, in base a come le fanno sentire e non ai pareri degli altri. E questa trovo che sia la parte più emozionante di quella che è diventata non solo la mia nuova attività ma anche la mia missione.




Storia vera di Claudia Vizzardi, Style Therapist Bergamo

raccolta per la rivista Confidenze, dicembre 2024

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