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Starbene - storie


Nadia Nunzi

La mia storia tossica ha inizio all’età di ventisette anni. Non sono anagraficamente una bambina ma ho l’aria ingenua e lo sguardo sognante di chi brama amore.

Sto vivendo un periodo di quiete molto bello, in cui sono solare, libera e indipendente. Mi sento forte, padrona della mia vita e delle mie scelte e sono assolutamente ignara della trappola in cui sto per finire. Il giovane seduttore seriale ha qualche anno in meno di me ma sa il fatto suo. Si avvicina in quel tempo mentre sono intenta a servire caffè dietro al bancone di un piccolo bar di paese. Spicca in mezzo alla folla per la sua avvenenza e per i suoi modi sicuri e diventa presto un habitué del locale. Mi studia per giorni, indaga per bene su di me e sulla mia vita prima di presentarsi con un’ordinaria rosa rossa e un biglietto di invito. Vivo da sola, non ho un fidanzato e ho sufficiente empatia. Sono la sua preda perfetta ed è certo di non fallire con i suoi intenti meschini.

In brevissimo tempo, infatti, conquista la mia fiducia, specchiando i miei desideri più profondi, facendo promesse che navigano nell’illusione e nel giro di pochi mesi andiamo a coabitare in casa mia. C’è questa fretta di fare tutto, di sapere ogni dettaglio e di accelerare i tempi per ogni cosa, matrimonio compreso, eppure non capto il segnale di allarme. Scambio quel suo coinvolgimento forte e le sue richieste insistenti come premure verso di me. Penso di aver incontrato la persona fantastica che ognuna vorrebbe accanto. Il ragazzo ideale con cui vivere la magia di una relazione esclusiva e rara. Sto giusto amando un’idea ma ancora non posso rendermene conto. Non so nulla di manipolazione e violenza e non posso immaginare niente di quello che avverrà. Una volta acquisito il possesso su di me, la natura del ragazzo gentile cambia di netto, le premure svaniscono e lasciano il posto alle umiliazioni. Ciò che lo ha attratto di me diventa motivo di offesa. Il trucco e i vestiti non vanno più bene. Devo scolorire e ottenebrarmi sotto stoffe ampie che non mi rappresentano. La mia identità deve essere annullata così come la mia libertà. Non posso più uscire da sola, non posso sottrarre tempo alla relazione frequentando i miei amici o la mia famiglia. Devo soltanto lavorare e poi rientrare a casa a sbrigare le faccende domestiche e non devo oppormi al suo volere perché altrimenti dimostro di non amarlo abbastanza, di essere una traditrice, di avere strane fantasie per la testa. La gelosia diventa possesso in un baleno ma vale a senso unico.Lui può uscire, può frequentare chi vuole, avere anche delle amanti, chissà… non è ammesso né chiedere né farlo presente. Devo stare zitta e obbedire.

In pochi mesi mi ritrovo intrappolata in un incubo. Ma non appena provo a distanziarmi da lui, a fare presente che il suo comportamento non va, eccolo che torna con finte scuse e gesti zuccherini e mi rassicura. «Mi comporto così perché ti amo troppo. Ti amo come mai nessun’altra prima».

Un’altalena di baci e offese che prosegue per mesi e dalla quale non riesco a sottrarmi.

La dipendenza che induce su di me è un elastico che mi rimbalza ogni volta tra le sue braccia. Le umiliazioni e i gesti di rabbia, però, diventano sempre più frequenti e più evidenti. Inizio ad avere paura della persona che mi dorme accanto nel letto.Vedo il disequilibrio, la follia, la sudditanza… ma non so che fare, con chi parlare, se parlare. Sono ormai isolata da tutti e completamente sotto il suo dominio. Ha fabbricato la paura in me con dovizia, giorno dopo giorno, così come pure la gabbia dove mi tiene prigioniera, senza lasciare nulla al caso. Sa che non deciderò mai di andarmene.

«Mi ami troppo anche tu» sostiene. Ma c’è una parola che stona nella frase. Lui non prova alcun sentimento per me come probabilmente per nessuna persona. Vuole soltanto ricavare dei vantaggi personali dagli altri, usarli a suo piacere, nulla di più. Quando decido di dire basta, di smettere di sopportare soprusi, di interrompere la relazione, va su tutte le furie. Mi chiude in una stanza e mi mette le mani addosso. Non sta a me decidere di andarmene. Non sta a me decidere niente. Mi porta fino al fondo della mia dignità, facendo leva sulle mie emozioni, infiltrandosi nelle mie vulnerabilità e facendo suoi i miei punti di forza. Usa contro di me ogni confidenza che gli ho regalato e non desidera altro che distruggermi.

Il manipolatore e la preda

Da quella stanza fortunatamente esco. Con i lividi, le lacrime e tanta paura ma viva. Denuncio e resistito a tutte le sue pressioni. Ai ritorni, ai finti pentimenti, alle recite, ai cambierò pronunciati a effetto. Non è facile liberarmi di lui, perché di fatto le istituzioni non mi aiutano come dovrebbero ma alla fine lui desiste, mi lascia in pace. E io non torno indietro mai. Tornare indietro significa subire un dolore più intenso e ricevere macchinazioni ancora più subdole. La violenza non regredisce, aumenta e con l’amore non si può placare. Questo è certo e non bisogna dimenticarselo mai.

È necessario tracciare con lucidità i propri confini, con occhi bene aperti e con la consapevolezza del proprio valore. Dopo tutto quell’inganno durato tre anni lavoro molto su di me. Mi guardo dentro, sano le mie ferite, fortifico la mia parte bambina e tramuto il dolore in risorsa, per rafforzarmi. Mi perdono per quell’errore di valutazione e mi riapproprio della mia vita, della mia dignità e delle mie passioni. Ora non permetto più a nessuno di privarmene.

Starbene, numero 49 novembre 2018

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