Gaslighting
Il Gaslithing è una vera forma di abuso mentale. Tanto potente da alterare la percezione della realtà e creare delle vere proiezioni.
Un tempo avevo una memoria di ferro.
Al lavoro mi dicevano che sembravo un computer. Riuscivo a catalogare mentalmente ogni singolo pezzo presente sugli scaffali del magazzino. Il negozio era zeppo di cose diverse, non era facile tenerle a mente tutte. Eppure io ci riuscivo. Ed ero orgogliosa di questa predisposizione cerebrale.
Ora invece ho dei veri vuoti di memoria. E vivo una realtà alterata.
Certe mattine mi sveglio e non ricordo più che cosa devo fare.
Prendo l’agenda e controllo. Devo scrivere tutto.
Annoto date, appuntamenti, scadenze, la lista della spesa. E a volte dimentico persino dove lascio il quaderno o la pagina che strappo.
Prendo la macchina e, a un certo punto, non ricordo dove stia andando.
Non sempre, certo, ma capita.
È stato Samuel ha ridurmi così.
Un prestigiatore abilissimo nel cambiare le carte in tavola e nel farmi vedere ciò che voleva lui.
Una storia durata tre anni. Pochi se si vive di amore, passioni, complicità, sincerità. Troppi se la manipolazione si insinua nel cervello come un solvente che scolora.
È iniziato tutto con una cosa apparentemente banale. Samuel mi chiede se gli preparo il pollo al curry per cena perché sostiene di adorarlo. È il nostro primo anniversario ma non ha voglia di andare a cena fuori.
Compro la carne e anche una bottiglia di vino. Preparo con dovizia ogni cosa e apparecchio la tavola entusiasta.
Quando rientra, si lava le mani e lancia un’occhiata al pollo fumante color ocra, ancora nel wok. Si acciglia: «che diamine è questa roba?», dice.
Lo guardo incredula. «Il pollo che mi hai chiesto».
«Io? Figurati, detesto la cucina indiana», ha con sé uno strano ghigno.
Lì per lì resto basita. Sono certa di aver capito bene, ma lui è talmente risoluto
nell’affermare il contrario, che lascio la cosa soprassedere e ripiego su una cena alternativa.
Qualche giorno dopo cerco le chiavi della macchina che lascio come di consueto nel vuota tasche della consolle all’ingresso e non le trovo.
«Amore, hai preso tu le chiavi?», gli dico.
«Io, certo che no. Che me ne dovrei fare? Le avrai lasciate da qualche parte.»
Poi mi aiuta a cercarle e le ritroviamo sopra una mensola del bagno.
Non ricordo proprio di avercele appoggiate ma penso che magari entrando soprappensiero me le sia portate appresso e che senza ragionare le abbia lasciate lì.
La mattina dopo mi sveglio e trovo la luce accesa in cucina.
Sono sicura di averla spenta prima di essermi messa a letto eppure l’interruttore è tirato su e la plafoniera brilla.
«Sei un po’ distratta ultimamente, eh?» mi dice lui con il solito sorrisetto, arrivandomi alle spalle. Poi mette su la moka per il caffè.
Penso sia dovuto allo stress. Non mi preoccupo più di tanto.
Può capitare. Infatti nei giorni successivi non accade nessun episodio insolito, tutto scorre nella norma e mi rassereno.
Purtroppo però la quiete non è destinata a durare e ben presto mi ritrovo sopraffatta da delle vere scenate.
Sto impazzendo. Sto dimenticando fatti sempre più gravi.
Samuel mi aspetta in un locale in compagnia di amici e io non arrivo. Mi chiama per sapere che fine abbia fatto. E io sono a casa, come sempre, che lo aspetto.
Mi dà della demente e mi obbliga a chiedere scusa a tutti.
Mi sembra impossibile che non rammenti minimamente di aver preso impegni con amici, eppure è evidente che sia così.
La sera piango affranta tra le sue braccia, dopo che mi ha mortificata, e chiedo scusa fino a sfinirmi.
La fase dell’adulazione è finita da un pezzo. Per lui sono una perfetta idiota, una donna che non vale niente e che probabilmente non vuole nemmeno più accanto.
Mi sento morire. Io lo amo e sicuramente non voglio perderlo.
Cerco di impegnarmi sempre di più per non deluderlo e per non combinare altri casini. E continuo a non capire che cosa mi stia succedendo.
I mesi scorrono e, tra alti e bassi, si va avanti. Io non sono sicura più di niente. E mi sento sempre più difettata. Una bambola rotta. Prendo in considerazione l’idea di farmi vedere da uno specialista.
Una sera però accade una cosa parecchio strana.
Siamo a letto e abbiamo appena fatto l’amore. Mi rilasso un attimo a pancia in giù e incrocio le mani sotto a un cuscino.
«E questa?»
Estraggo una brasiliana di pizzo rosso fuoco.
Samuel guarda il mio volto interrogativo e serio e con una naturalezza estrema mi dice:
«Questa cosa? Sarà rimasta lì dall’altra notte.»
Questa non è mia. Lo penso.
«Questa non è mia», glielo dico.
«Non ricordi più nemmeno gli slip che indossi adesso?»
Non ho mai indossato brasiliane. Soprattutto di quel colore. Su questo non ho dubbi.
La mia mente si apre. Uno squarcio che mi devasta, ma non sono lucida abbastanza per comprendere fino in fondo.
Ho bisogno di una prova tangibile di quello che la mia mente confusa non riesce a decifrare.
Faccio finta di niente e la mattina dopo compro un registratore spia.
In pochi giorni ho la prova della verità.
Quello che sento uscire dalla mia bocca e poi dalla sua è un disincanto che dà i brividi. Una rielaborazione da professionista. Da vero disturbato mentale.
Gli sbatto davanti le prove dell’inganno sconcertata ma lui, con il solito sbuffo di sorriso, nega e continua a dire che sono fuori di testa.
Sono scorsi due anni da allora, la realtà che vivo adesso, lontana da lui e dalle sue manipolazioni, è ancora piena di buchi. E spero presto, tra le cose che dimentico, di includere anche tutto quello che mi ha fatto. Intanto so di non essere certo io la pazza.