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  • Nadia Nunzi

Luce e Ombra


«Sono luce e ombra», mi ha detto.

«Chi non lo è? Tutti abbiamo le nostre oscurità, no?»

«Tu no. Tu sei solo luce. Vieni qui».

Mi ha abbracciata tirandomi delicatamente verso di sé. Era bellissimo.

Nei suoi occhi chiari scorgevo l’amore che mi riversava addosso come un regalo inaspettato e rassicurante.

Mi ha sfilato la maglia di lana e la pelle si è subito riempita di brividi.

Mi ha stretta ancora, avvolgendomi con il suo calore e mi ha baciata con passione.

«Ti amo tanto, lo sai? Ti amo proprio tanto», ha incalzato.

Erano pochi giorni che ci frequentavamo ma sembravano anni.

Mi appariva come un angelo sceso sulla terra, arrivato per colmare i miei vuoti, per riempirli con una sottilissima e pregiata polvere di stelle.

Ero anch’io luce e ombra seppur dicesse di no. Che non ero come lui.

La parte scura della mia anima era quella composta dalle infinite insicurezze.

Un’età non più adolescenziale, i primi capelli bianchi, la cellulite sulle cosce, le rughe sul volto che appariva sempre stanco, la pelle olivastra, un lavoro mancante, nessuna stabilità economica, una stanza a casa dei genitori ormai anziani…

Tutti gli elementi per un futuro incerto, insomma.

Mat è arrivato esattamente in quel momento nella mia vita, con un sorriso di denti perfetti, intorno a una frase spavalda proiettata verso di me con precisione.

«Sei tu la donna che stavo cercando, finalmente ti ho trovata».

Ho sentito le guance avvampare e non solo quelle. Ho abbassato gli occhi e mi sono diretta verso l’uscita del locale, lasciando il bicchiere dell’analcolico sopra al bancone.

Lui mi ha seguita fuori, con decisione eppure calmo, elegante.

«T’invito a cena stasera. Non puoi rifiutare», mi ha detto.

E io non ho declinato la proposta. Forse una volta l’avrei fatto o avrei almeno temporeggiato.

Quel giorno no. Quando si matura si accorciano i tempi anche dei convenevoli.

Sono rientrata a casa con l’euforia di un’adolescente che non aspetta altro che essere agguantata e sedotta.

Ho salutato mia madre intenta a intrecciare fili colorati, con una coperta sulle gambe, e ho dato un bacio a mio padre, poi sono corsa nella mia stanza.

Ho aperto l’armadio e ho cercato dentro, tra vestiti che non indossavo ormai da parecchio, e ho scelto quello più seducente, inventato per valorizzarmi.

Un vestito morbido e caldo ma con i dettagli giusti: uno spacco laterale su una stoffa aderente e un colletto in pelo sintetico.

Mi sono impreziosita con dei gioielli luminosi di bigiotteria e ho acceso le labbra di rosso, intonandole con le decolleté che avevo ai piedi.

Quando ho fatto le scale per scendere ho cercato di non dare troppo nell’occhio ma non credo di esserci riuscita.

L’intensa scia di profumo dolciastro ha invaso il mio percorso e mi ha svelata, ma ho fatto finta di niente. E credo anche i miei genitori.

Mat mi aspettava appoggiato all’auto e mi ha subito accolta con lo sguardo fiero e compiaciuto.

Mi ha fatta salire con gesti antichi e gentili che non immaginavo nemmeno esistessero.

«Ma chi ti ha mandato?»

«In che senso?»

«Nel senso: da dove esci? Non puoi essere reale», ho riso libera senza coprirmi la bocca.

«Sono reale eccome e presto te ne renderai conto. Ho prenotato al Velvet, ti piace?»

Mi sarebbe piaciuto qualsiasi posto accanto a lui e questo era il pericolo. Era una nuova oscurità che s’incastrava sopra a un ricordo fragile.

«Certo, va benissimo», ho risposto timida.

«Sei proprio bella», ha detto invece lui e io ci ho creduto.

Nel ristorante ha continuato con i gesti galanti: mi ha tolto il cappotto, mi ha scostato la sedia per farmi accomodare, mi ha versato sia il vino che l’acqua nei due bicchieri che avevo davanti, poi abbiamo brindato al nostro primo incontro.

L’incontro del destino, come precisava lui.

«Ancora non ci credo che ci siamo trovati, lo sai?»

«Ma non ci conosciamo neppure, che ne sai se siamo fatti l’uno per l’altra?»

«Non serve saperlo, certe cose si sentono e io non ho mai provato sensazioni come quelle che mi susciti ora tu… sei una musa».

Mi ha preso la mano, solo un attimo, accarezzandone il dorso con il pollice sinistro, poi ha aperto il menu e ha ordinato per due, senza farmi scegliere, ma non ci ho fatto caso.

Ho mangiato il pesce e le verdure come un automa, rapita dal suo carisma, e quando siamo tornati in macchina ero già brilla di tutto: di vino, di me, di lui.

Non mi sarei mai concessa con tanta facilità a un primo appuntamento, invece con lui non ho opposto resistenza.

Gli ho permesso di percorrere il mio corpo con le mani grandi e ruvide, di insinuarsi con la lingua nella mia bocca e poi di andare oltre, ovunque lui volesse.

Mi ha baciata con trasporto mentre eravamo ancora in macchina e ha continuato sotto una coperta scura adagiata su un letto grande. A casa sua.

Era bollente, ma quel calore non mi avrebbe protetta, non era solo passione, era anche un fuoco pericoloso. Ma io non temevo nulla.

Poi un giorno, qualche tempo dopo, me l’ha ridetto: «sono luce e ombra, tu non sei come me».

Non capivo.

Le cose che non conosciamo ci attraggono, sono infiocchettate magicamente e ci fanno avanzare verso chi non dovremmo. Oltrepassare confini, che a mente lucida, saremmo invece in grado di vedere come tetri e insidiosi.

Mat era troppo bello per nascondere un qualsiasi segreto. Questo pensavo. E quella che lui definiva ombra era un ulteriore incanto per me.

Mi ha coccolata e sedotta per due mesi, come se fossi la sua unica ragione di vita.

Mi ha fatto ogni sorta di regalo, abbellita con abiti nuovi, e impreziosita con gioielli e attenzioni uniche.

Una sera, a casa sua, ha acceso il camino e mi ha chiesto di sdraiarmi sul tappeto, lì davanti a quel quadro aranciato in movimento.

Le fiamme ci coloravano i volti pallidi e ci scaldavano. Solo in casi come quello il mio corpo riusciva a bruciare di uno stesso calore. In tutti gli altri sembravo di ghiaccio: i piedi e le mani sempre fredde, la pelle bucciata a ogni soffio. Eppure io ero l’anima calda e il freddo dentro apparteneva a lui.

Mi ha spogliata delicatamente, come faceva sempre, e mi ha baciata in ogni angolo nudo, fino a che non ho perso la lucidità e mi sono lasciata totalmente andare alla sua magia.

Dopo l’amore siamo rimasti distesi per un po’, vicini, in silenzio, fino a che non ha deciso di romperlo.

«Forse non dovresti stare con me».

Mi sono tirata su quasi di scatto.

«Perché dici così? Che ti prende adesso?»

«Niente, vieni qui».

Si è messo seduto anche lui e ha allargato le braccia per accogliermi come faceva sempre. Ma il suo sguardo non era lo stesso che conoscevo.

Aveva dentro quell’oscurità di cui parlava, ma non era abbastanza per intimorirmi.

La paura me la provocava quella sua prima frase.

Non potevo immaginare di perderlo, di allontanarmi da lui, di ricominciare la mia vita da sola.

La solitudine spesso ci spaventa più delle persone malvagie. Per questo decidiamo di tenercele accanto anche quando scorgiamo qualcosa che non va nei loro occhi.

Era questa la mia ombra più scura: il non saper badare a me stessa. O meglio la scelta di non volerlo fare.

La paura di non avere più tempo di costruirmi una famiglia tutta mia, un futuro. Il terrore di non poter avere figli.

Dopo una settimana, da quella sera, siamo andati a vivere insieme.

Me l’ha chiesto lui di trasferirmi.

L’idea di lasciare i miei genitori da soli non ha avuto la meglio sui miei pensieri da fuggiasca innamorata e fuori tempo.

Ho preferito lasciarli alla loro quotidianità ingrigita.

Una donna mi avrebbe aiutata a gestire la loro vecchiaia nell’avanzare. Era Mat che pagava senza farmelo sentire come un peso.

«Per me l’importante è che stiamo insieme. Sono io la tua famiglia», mi ha sussurrato baciandomi sulla fronte come se fossi la sua bambina.

Ero appena entrata ignara nella gabbia del leone.

Proteggevo il mio sogno di principessa che viene salvata e tirata giù da una torre alta di un castello sperduto nel nulla, senza preoccuparmi di difendere me stessa.

L’idea della favola era più forte e mi trascinava via.

La prima volta che ho trovato i vetri rotti per terra, mi sono spaventata. Ero uscita per far la spesa con l’idea di preparare qualcosa d’invitante per un nostro mesiversario.

Avevo comprato varie cose, dopo aver cercato online una ricetta, non troppo elaborata ma particolare, degna della nostra ricorrenza. Avevo anche comprato una bottiglia di vino e un dolce nella pasticceria all’angolo, quella che mi aveva fatto conoscere lui. La migliore.

Quando ho aperto la porta sorridente e ho visto i vetri per terra, il viso si è subito scurito e il cuore ha iniziato ad accelerare i battiti.

«Mat è tutto a posto? Che è successo qui?»

Lui è uscito dal bagno con una mano fasciata alla meglio con un asciugamano chiaro. Le chiazze rosse di sangue l’avevano impregnato in alcuni punti e facevano impressione.

«Fa vedere, che hai combinato?», ho insistito premurosa.

«Non è niente, non mi toccare», ha detto serio lui e sembrava un altro.

Sono andata in cucina e ho raccolto i vetri che poco prima formavano un vaso contenente delle orchidee viola.

Ho cercato di asciugare il pavimento senza tagliarmi anch’io e ho buttato i fiori.

Lui era lì, a pochi metri di distanza, con lo sguardo fuori dalla finestra, intento a pensare a qualcosa che non ho mai saputo.

È rimasto in silenzio per tutto il tempo in cui ho cucinato e ha accennato solo qualche parola a cena.

«Non penserai mica di voler festeggiare ogni mese?» ha detto alla fine, dopo aver brindato.

Le sue parole erano lontane da quelle gentili del mese prima, quando non faceva che ribadire la mia importante presenza nella sua vita.

«Pensavo fosse un gesto carino… ma se t’infastidisce, in futuro eviterò», ho risposto con un filo di voce e abbassando lo sguardo.

Mi stavo sottomettendo e lui non era più l’uomo che avevo conosciuto.

Vedevo meglio le sue ombre adesso. Quelle che ogni tanto citava, come per tutelarsi nell’avermi avvertita.

Son venute fuori ancora, giorno dopo giorno, correndo come demoni sopra le mie. Arrivavano a inghiottirle e prendevano potere a ogni boccone.

Più le mie si svelavano e più si mostravano le sue. Questo era il gioco mostruoso di cui facevo parte.

Le ombre erano affini e rappresentavano le nostre debolezze ma ci facevano comportare diversamente. Ci facevano essere schiava e padrone come in una realtà sessuale di sadomasochismo.

Quella notte abbiamo fatto l’amore frettolosamente e il giorno dopo un nuovo vaso con dei fiori freschi, appena recisi, occupava lo stesso tavolo di sempre. Al centro, composto, colorato. Solo apparentemente, vivo.

Tutto sembrava essere tornato alla normalità.

Le attenzioni di Mat erano rientrate nel nostro quotidiano.

Regali, baci, coccole, calore.

E si fa presto a dimenticarsi di gesti anomali quando gli altri ci confondono.

Era domenica e invece di andare dai miei genitori, come di consuetudine, mi aveva chiesto di restare a casa.

Dal bagno usciva un profumo di muschio bianco delicato.

La vasca era riempita quasi fino all’orlo e una nuvola di schiuma bianca ricopriva il corpo di quell’uomo misterioso e attraente che m’imprigionava nella sua rete con una maestria fuori dal comune.

La porta era socchiusa e lo vedevo appena tra i vapori dell’acqua calda che avevano appannato un po’ tutto e bagnato le piastrelle.

Mi ha chiesto di spogliarmi e di raggiungerlo.

Le note di un piano in sottofondo erano più alte del dovuto ma le ho lasciate festeggiare con noi.

Abbiamo fatto l’amore intensamente ed è stato allora che ho lasciato che il suo corpo restasse dentro il mio.

Lui non si è opposto e mi ha lasciata fare.

Ero felice. Stavo per coronare un nuovo sogno e l’avrei chiamata Stella se fosse stata femmina. Non so come, se fosse stato maschio.

Uscita da quella stanza umida, ho fantasticato a lungo su quello che sarebbe stato il cambiamento. E così in seguito.

Ogni giorno il mio primo pensiero era rivolto a quella nuova vita che sarebbe cresciuta dentro di me.

Non importava se fosse già accaduto oppure se avessimo dovuto riprovare ancora.

Solo il pensiero di una probabilità mi rendeva euforica.

Dopo i primi giorni di ritardo, non ho esitato un attimo a fare il test.

Positivo. Non so perché ma me lo sentivo in quei pochi istanti di attesa.

Sono stata fortunata. Ci sono donne che rincorrono per anni la maternità e provano fino allo stremo ad avere figli che non arrivano.

A me è successo dopo la prima volta, con l’uomo che amavo, dentro a una vasca da bagno, in un giorno apparentemente qualunque.

Prima di dirlo a Mat ho aspettato qualche giorno e il momento giusto.

Ma un momento giusto non c’era.

«Amore, devo dirti una cosa…» mi batteva forte il cuore e avevo gli occhi lucidi. «Presto saremo in tre».

Lui non ha risposto nulla ma si vedeva che era tutt’altro che contento.

«Non dici niente? Qualcosa non va?»

Mi ha guardata solo un attimo, poi si è alzato ed è uscito, con una calma apparente, senza nemmeno sbattere la porta.

Gli ho dato il tempo di metabolizzare. Non se l’aspettava, forse. O forse sperava che non sarebbe mai successo.

Ha evitato l’argomento per giorni e quando l’ha affrontato non era come sarebbe dovuto essere.

Nulla era come doveva.

Eravamo insieme in cucina. Il solito vaso era sul tavolo e i fiori assistevano in silenzio. Le loro teste erano piegate verso il basso e non reagivano. Non erano diverse da me: impotenti, chine, recise.

Le ombre di quel giorno erano tante, dappertutto.

Erano l’oscurità di una stanza chiusa a chiave dove io ero l’ostaggio.

Erano gli occhi di Mat che mi fissavano come non avevano mai fatto prima.

Erano il coltello che teneva in una mano con la punta della lama rivolta verso di me.

Erano i suoi capelli scuri spettinati e i piedi nudi su un pavimento gelido.

«Mi hai voluto incastrare, eh? Brava! Complimenti! E io adesso cosa dovrei fare con te?»

«Ma che dici, amore, calmati… metti via quel coso… sei impazzito?»

«Ah, io sarei pazzo? Io? Tu, invece? Ti sei fatta mettere incinta senza nemmeno chiedermi cosa ne pensassi».

«Pensavo volessi anche tu una famiglia, ne avevamo parlato… ma metti giù quel coltello, per l’amor di Dio».

«Non ti bastavo io come famiglia, certo! Dopo che ti ho dato tutto, che ti ho tolto da quel buco dove vivevi con quei due vecchi, hai voluto strafare! Che stupido che sono stato!»

«Mat guardami, che stai dicendo? Guardami ti prego e torna in te».

Le ombre continuavano a rincorrerci. Erano diventate cosa comune e non se ne sarebbero più andate.

La luce era quella che filtrava dai buchi di una tapparella abbassata fino a terra, invece. Era quella che cercava d’insinuarsi salvifica attraverso la fessura della serratura dove era stata tolta la chiave.

Era quella dei miei occhi che cercavano in un lampo di trovare una soluzione che non mi facesse ricordare vittima di un dramma. Era la pelle chiara delle mie mani tremanti che sono riuscite a far abbassare quelle di Mat fino a fargli riporre l’oggetto contundente.

Avevamo paura entrambi. Ma lui di più.

La notizia dell’arrivo di un figlio l’aveva smascherato tutto di un colpo.

Non avrebbe mai accolto una nuova vita accanto a me, a noi.

La paura di non essere una priorità lo tormentava.

Dopo quel suo gesto folle si è accasciato a terra e si è decomposto in un pianto dirompente che era tutt’altro che liberatorio.

Gli sono andata accanto e gli ho chiesto di uscire insieme a me da quella stanza e che tutto si sarebbe risolto. Mentivo.

Ha preso la chiave dalla tasca, ha smesso quasi improvvisamente di piangere e si è alzato.

Non c’era una soluzione per noi.

C’era un futuro totalmente diverso da quello che avevo previsto.

Entrambi non eravamo al sicuro. Non lo eravamo mai stati da quando c’eravamo messi insieme.

Le persone non si cercano e, quando si è confusi, è da soli che bisogna stare.

Ho chiesto a Mat di farsi vedere da uno specialista ma sapevo già che non ci sarebbe mai andato.

Dopo la crisi di nervi sembrava essere in uno stato vegetativo ma era solo una questione temporanea.

Certe persone non cambiano e credere che sarà così è un’illusione che a volte ci sotterra.

Che cosa avrebbe fatto domani? E i giorni dopo? E quando avrei partorito?

In una sana presa di coscienza, che ha stupito anche me, ho fatto le valigie e me ne sono andata.

Erano passati pochi giorni da quell’evento scabroso. Mat era al lavoro e io non ho esitato, seppur il sentimento per lui sentivo mi bruciasse ancora forte nel petto.

Con gli occhi pieni di lacrime sono uscita e sapevo che non sarei tornata mai più in quella casa dove avevo invece fantasticato il nostro futuro.

Non l’ho denunciato, forse avrei dovuto. Ma in fondo non avevo prove e chi mi avrebbe creduta?

Ho pensato questo, probabilmente sono stata vigliacca ma non ho saputo decidere altro.

Sono tornata a casa dei miei genitori con una scusa, per non sconvolgerli. Dicendo semplicemente che la convivenza non aveva funzionato.

Avevo comunque paura. Molta.

Mi aspettavo il peggio, che lui si facesse vivo e che compiesse qualche altra sciocchezza.

Invece il silenzio. Per mesi il suo silenzio mi è stato addosso come un respiro affannoso sul collo, capace di svegliarmi di notte.

Eppure lui non c’era, sembrava volatilizzato nel nulla. Com’era apparso davanti a me quel pomeriggio nel locale, era in seguito svanito.

Ho portato avanti la gravidanza con orgoglio. Non avrei mai potuto decidere di fare diversamente. Non lavoravo e non sarebbe stato facile mantenerci, ma in qualche modo ce l’avremmo fatta.

La badante non veniva più, ai miei genitori pensavo nuovamente io e in cambio loro mi aiutavano economicamente e con la loro flebile ma essenziale presenza.

Erano anziani e stanchi ma erano vivi e il bagliore dei loro occhi pieni d’amore per me erano nutrimento per l’anima e incoraggiamento per il futuro.

«Ce la farai bambina mia, come ce l’abbiamo fatta noi e come ce la fanno un po’ tutti, con sacrificio. E vedrai che ne varrà la pena. Un figlio, anche quando pensi di no, ti ripaga sempre di tutto. Hai fatto comunque la scelta giusta e io sono fiera di te», mi ha detto mia madre una sera dopo il mio ritorno a casa, accarezzandomi il viso dolcemente.

Mi sono scese le lacrime, in parte amare, perché sentivo il peso di essermene andata in maniera così ingenua, da un amore vero, per rincorrerne uno oscuro e ingannevole.

I mesi successivi sono stati ancora un misto di luci e ombre. Mi sentivo confusa. Era accaduto tutto troppo in fretta.

Mi ero lasciata stregare banalmente e questo mi faceva sentire una stupida.

Poi erano arrivati i primi segnali di allerta e li avevo ignorati. Anche questo mi destabilizzava. Ma una cosa saggia, alla fine, l’avevo comunque fatta: me n’ero prontamente andata.

Sulla gravidanza non ho mai avuto dubbi. Più la pancia cresceva più mi sentivo in pace.

Quella nuova vita che cresceva dentro di me mi ridava il senso dei miei errori, delle mie scelte, e più arrivavo alla scadenza, più mi sembrava di ringiovanire.

Mat l’ho rivisto solo un anno dopo, mentre passeggiavo nel vialetto dietro casa dei miei genitori.

Ho scorto da dietro la sua figura slanciata racchiusa in un cappotto nero.

Accanto a lui una giovane donna dai lunghi capelli gli cingeva i fianchi con un braccio esile.

Invece di indietreggiare e andarmene, mi sono seduta su una panchina e li ho guardati a lungo, a distanza.

Non so perché l’ho fatto. Non so nemmeno cosa ho provato.

Forse volevo indagare. Capire se quella donna fosse come me o diversa. Se lui fosse cambiato oppure no. Se la loro storia avrebbe funzionato o se sarebbe sfociata in una disgrazia. Se anche lei desiderasse un figlio o se gli bastasse il loro amore.

Poi Stella ha pianto e lui si è girato verso di noi e mi ha vista.

Ho temuto di nuovo il peggio. Che venisse verso di me e che reagisse in modo brusco, con uno scatto d’ira. Che volesse vedere se quella creatura che aveva tanto temuto, gli somigliasse.

Invece non ha fatto niente. È rimasto inespressivo, poi è tornato a guardare davanti a sé.

Dopo pochi minuti era oltre il viale. Lo vedevo dileguarsi e diventare sempre più piccolo e sfuocato.

Solo la chioma bionda di lei restava vivida nel vento.

Era ancora luce e ombra. Forse lo erano entrambi. Ma non mi riguardava più. Io ero diversa, aveva ragione, non ero come lui. E nemmeno Stella lo sarebbe mai diventata.

Il suo nome di buon auspicio avrebbe illuminato le nostre vite, ne ero certa, e io non mi sarei mai più sentita sola.

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