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  • Nadia Nunzi

La Vita è adesso


«Nella vita non contano i passi che fai ma le impronte che lasci nel cuore di chi ti vuole amare»

Agata Giudice e Roberto Finocchiaro

È il 2006 quando la mia vita cambia inesorabilmente. Sono una giovane agente immobiliare di poco più di trent’anni e, come di consueto, mi sto recando al lavoro, completamente ignara di ciò che sta per succedere. Un dissesto stradale fa sbandare il vespone su cui sono a bordo e finisco sull’asfalto sbattendo violentemente con la schiena sul marciapiede. Mi trasportano d’urgenza nell’Azienda ospedaliera Cannizaro di Catania, dove mi operano la sera stessa e mi comunicano di aver subito una lesione midollare. Dopo qualche giorno chiedo di essere trasferita nella struttura Ospedaliera specializzata a Montecatone e inizio il mio percorso riabilitativo con il supporto di mia madre e del mio fidanzato. Lui mi rassicura dicendo che tutto si sistemerà, ma scelgo subito di non aggrapparmi a nessuna speranza o illusione. Sono circondata da persone che hanno perso l’uso delle gambe e non mi sento più speciale di loro. Questa fredda lucidità che mi arriva addosso e mi tiene vigile, in quel momento è la mia più grande ricchezza. È l’occhio della verità che, senza attendere, mi mostra le cose per ciò che sono e non per come io voglio che siano. Così, quando i medici mi confermano la mia condizione, che non potrò più camminare, sono già preparata ad accettarla e decisa ad andare avanti nel miglior modo possibile.

«Non sentirti in obbligo di restare con me» dico al mio compagno (attuale marito) subito dopo ed è ciò che desidero: lasciarlo libero. Ma lui non ha intenzione di staccarsi da me e dopo otto mesi di ricovero a Imola ritorniamo insieme a Catania, dove la mia casa al terzo piano non è più mia. Non posso più fare le scale e non ci sono ascensori, devo trasferirmi altrove. Questa è una delle tante consapevolezze che mi mostra ciò che non sarà più come prima. Tuttavia non mi perdo d’animo.

Sono sempre stata forte, autonoma e molto attiva e voglio continuare a esserlo.

So che dovrò fare molte cose in maniera differente ma posso comunque farle, questo è ciò che conta, perché è l’atteggiamento che si decide di avere che fa la differenza e in certi casi ti salva. Non che tutto sia facile, i luoghi e gli spazi non sono più a mia dimensione e devo imparare nuovi modi di abitarli. Mi scontro inoltre con l’ignoranza e la maleducazione di molte persone, ma la solidarietà di tante altre arriva ben presto a scaldarmi e nella condivisione non mi sento né diversa né sola.

Nel 2013 accolgo la proposta di partecipare a un progetto a livello nazionale che riguarda gli sport per disabili. Mi dedico a varie attività, dal nuoto al basket fino ad arrivare a ciò che amo da sempre: la danza. Inizio con i balli di gruppo e proseguo con quelli di coppia, per mettermi alla prova. Dopo un primo incontro con un ballerino - interrotto per motivi di lavoro - conosco Roberto Finocchiaro, insegnante di danze caraibiche del Centro Studio Danza RoNart Ballet, che si mostra subito umile e disponibile a condividere questa esperienza.

Danzare insieme a lui è emozionante e mi dà modo di dimostrare che tutti possono tutto quando si hanno passione, coraggio e tanta forza di volontà. Quando ballo con lui mi sento carica e piena di luce, non penso a come potrebbe essere farlo con le gambe e cerco di sfruttare al massimo la carrozzina. Mi piace stupire, emozionare e colpire le persone trasmettendo emozioni. Oltre un importante messaggio di forza ci tengo che passi anche dell’altro, perché dietro ogni coreografia ci sono studi e ricerche e per me è importante che si evinca ogni volta che Roberto mi solleva afferrando la carrozzina, o prendendomi in braccio, e facendomi volteggiare insieme a lui. E quando alla fine di uno spettacolo si avvicinano per ringraziarmi le ragazzine che studiano danza e mi dicono: «Da domani andrò a lezione con uno spirito diverso e una consapevolezza nuova», so di aver mosso qualcosa e rientro a casa più ricca.

A volte qualcuno mi chiede se potendo tornare a essere quella di prima, lo vorrei.

Apprezzo la persona migliore che sono oggi, sono fiera di tutto ciò che faccio, di come affronto la quotidianità e della mia forza, ma di certo pagherei per tornare indietro perché per quanto la mia vita oggi possa essere eccezionale, so di non poter più essere di supporto fisico per i miei cari e chi ha bisogno, con una maggiore autonomia e presenza. Comunque l’utopia non mi appartiene e non penso più alla vita di prima, preferisco concentrarmi su quella di adesso, cercando di viverla meglio che posso.

Anche inventandomi un nuovo modo di danzare, con le braccia, con le ruote che mi permettono di fare giri e piroette e con il cuore che batte tutte le sue pulsazioni ricordandomi che sono qui, ancora viva e piena di energia contagiosa.

Attualmente, dopo l’incontro nel 2007 con il Presidente Martino Florio, sono membro attivo della sua Associazione L.I.F.E. Onlus, che si prefigge di portare avanti la lotta per abbattere le barriere fisiche e mentali che, ancora oggi, ci sono sulla disabilità, attraverso lo sport in tutte le sue forme: handbike, nuoto, basket, danza, subacquea perché lo sport è di tutti e per tutti. Aiuta a riscoprirti, reintegrarti, socializzare, metterti in discussione. Ti fa entrare in contatto con altre persone, trarre forza anche da loro e ti fa amare la vita ancora di più. E ritengo che sempre più palestre dovrebbero avvicinarsi a sport per diversamente abili perché è giusto che anche una persona in carrozzina possa scegliere sala, istruttore e attività come qualunque altra e spero che un giorno, anche attraverso il mio messaggio, questo accada per vivere tutti insieme nel rispetto delle diversità.

Testimonianza raccolta per la rivista Starbene n°8 del 5 febbraio 2019

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